Arrampicata e paura di fallire è il tema dell’ultima intervista che ho svolto con Oliunid Italia, il sito e-commerce specializzato in materiale d’arrampicata.
In un recente podcast di Training Beta “how to be a stronger, better boulderer” la conduttrice Neely Quinn ha approfondito insieme agli istruttori Matt Pincus e Alex Stieger alcuni aspetti psicologici legati non solo all’arrampicata ma anche al nostro modo di vivere l’allenamento.
Analizzando alcuni tra gli errori più comunemente commessi da ogni climber, hanno evidenziato come un allenamento poco efficace possa dipendere anche da una “paura di fallire”, o meglio ancora, da una necessità largamente diffusa di giustificarsi un insuccesso su boulder particolarmente impegnativi.
Nella pratica questo si traduce in due modi possibili di affrontare una serata di allenamento in palestra: il primo è quello di provare esclusivamente boulder sui quali ci sentiamo sicuri, che magari abbiamo già salito e dai quali, insomma, contiamo di non cadere. Il secondo è diametralmente opposto ma simile “alla radice” e riguarda tutte quelle volte in cui ci accaniamo solo su progetti fuori dalla nostra portata perché ci sembra più giustificabile non riuscire su un 7A / blocco verde/ qualsiasi cosa universalmente riconosciuto come “difficile” che su un passaggio che per noi sarebbe molto più allenante, ma classificato con segni e numeri meno “edificanti”.
Visto che anche noi ci ritroviamo a giorni alterni in uno dei gruppi, e considerata la complessità dell’argomento, abbiamo pensato di ospitare nuovamente nel nostro blog il Dr. Psicologo Guido D’Acuti, climber ed esperto in materia. Con lui avevamo già approfondito il tema della “comfort zone” in arrampicata (qui il link), quindi oggi ci dedichiamo principalmente all’accettabilità dei nostri fallimenti solo da un certo grado in su.
Bene grazie! Il piacere è mio di poter aderire a questa intervista.
Assolutamente si! Tutti i comportamenti descritti rientrano sia nella paura del giudizio che in quella di non essere all’altezza. Più tentiamo di sfuggire a queste paure e più ci perseguitano. In entrambe le situazioni quello che accade è di sentire il peso del fallimento, che ovviamente di conseguenza va ad agire in modo negativo sulla propria autostima e sull’esperienza di arrampicata. Mi piace sempre parlare di “esperienza” nel contesto dell’arrampicata, perchè nel momento in cui noi ridimensioniamo il nostro modo di pensare possiamo riuscire a raggiungere risultati insperati.
L’ultima volta che ho chiacchierato con un ragazzo in spogliatoio mi stava parlando proprio della sua frustrazione per non riuscire a superare la sua zona di comfort. Ricordo che mi stava dicendo:
“Sto arrampicando solo su cose semplici, mi sento tranquillo, però in realtà non riesco realmente a divertirmi”.
Il suo è un esempio classico: la paura del fallimento diventa bloccante! Il paradosso che sta dietro a questa osservazione è che se noi la paura iniziassimo a guardarla negli occhi, si trasformerebbe in un’energia assolutamente funzionale.
La domanda è davvero pertinente ed interessante. L’essere umano – nessuno escluso – è una “contraddizione” vivente. La nostra mente si nutre di paradossi. E infatti è un non senso accettare di cadere su un passaggio difficile e rifiutare un evento analogo su un boulder facile. Allora la domanda che mi pongo è: “Ma dobbiamo davvero dimostrare qualcosa a noi stessi?” Se calibrassimo il nostro allenamento su un criterio diverso, alla ricerca più del divertimento di cimentarsi che non dell’agonismo puro, potremmo raggiungere obiettivi insperati. Provare per credere.
La competizione fa parte della nostra vita. Può essere uno stimolo, ma anche un limite. In arrampicata, come nella nostra vita, guardiamo costantemente l’altro perchè rappresenta un elemento di paragone, di valutazione e anche di feedback. Quando l’altra persona presenta delle caratteristiche specifiche iniziamo a guardarla attraverso una lente mentale che ce la mostra solo secondo un particolare profilo, e ci confrontiamo con lei. In realtà non dovremmo guardare al climber solo in base al boulder che prova, perchè così facendo ne ricaviamo un giudizio limitato al solo ambito sportivo, che però tendiamo ad estendere alla persona in quanto tale. Dobbiamo andare oltre, cercando di vedere gli elementi che ci sfuggono ma che sono presenti.
Una tecnica davvero efficace è quella di spostare la nostra attenzione su altro, facendo una piccola pausa, provando un altro blocco. Addirittura potremmo rinviare alla successiva sessione di allenamento, per riprovare il muro su cui siamo caduti. Giorgio Nardone nel suo libro “Oltre se stessi” in casi come questo consiglia proprio di integrare con altre attività che distraggano dall’eccesso di concentrazione mentale. Perchè il rischio è che la performance si riveli disfunzionale e stressante dal punto di vista emotivo. Come afferma Maurice Greene:
“Per essere il numero uno, devi allenarti come se tu fossi il numero due”.
Dobbiamo sempre fare i contri con le nostre emozioni. Ci sono sensazioni negative che un arrampicatore non dovrebbe mai sottovalutare, ad esempio quando avverte segnali emotivi contrari o quando si sforza di andare in palestra al termine di una giornata pesante. L’arrampicata in questi casi rischia di trasformarsi in una vera una sofferenza. Quando l’attività che ci piace di più si trasforma in un momento critico, difficile da gestire, forse è arrivato il momento di fermarsi, di modificare il nostro approccio all’arrampicata. Il principio fondamentale che deve guidarci è quello relativo al piacere. Dobbiamo sempre ricordare che la nostra mente in generale tende ad evitare il dolore, ed è invece propensa a ricercare il piacere. Per tale semplice motivo è fondamentale connettere l’esperienza dell’arrampicata ad un momento gradevole e positivo!
Nell’arrampicata c’è sempre una sfida con se stessi, il fatto è che non dobbiamo arrivare a combattere contro la nostra mente. Dobbiamo fare pace con i nostri pensieri e le nostre emozioni, se riusciamo a vivere il momento dell’arrampicata come piacevole, liberi da costrizioni mentali di eccessivo antagonismo, possiamo sicuramente diventare competitivi. Vi propongo l’ennesimo paradosso: essere in competizione con noi stessi senza esserlo, vivere l’esperienza arrampicata in maniera totale e matura deve diventare la nostra sfida.
Categorie: Ansia e panico, Psicologia dello Sport
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